SOUND OFF
Psicogenealogia

Radici di dolore e memoria: il trauma storico tra generazioni. Il trauma e la storia, il contributo della Dott.ssa Patrizia Giorgi

Anna Maria Ricci

25/11/2025

18 min lettura

Radici di dolore e memoria: il trauma storico tra generazioni. Il trauma e la storia, il contributo della Dott.ssa Patrizia Giorgi


Domenica scorsa ho concluso la Formazione in Psicogenealogia Junghiana e Costellazioni Psicogenealogiche® di e con la Dott.ssa Maura Saita Ravizza, dove ho avuto il piacere di conoscere anche la Dott.ssa Patrizia Giorgi,
psicologa psicoterapeuta e associata a Psicologi per i popoli dal 2023, un’organizzazione di volontariato composta da professionisti della psicologia dell’emergenza e urgenza, accreditata presso il Dipartimento Nazionale della Protezione Civile.


L’articolo che segue, dal titolo “Il trauma e la storia” – Produciamo storia collettiva e dalla storia collettiva siamo modellati – è stato scritto proprio da lei come contributo di Psicologi per i Popoli sez. Toscana che riflette sulle profonde dinamiche bio-psico-sociali dei traumi collettivi storici e culturali. Un tema fondamentale per comprendere come la storia e il trauma influenzino le nostre vite e quelle delle generazioni future. Vi invito a leggerlo e a riflettere insieme su queste preziose considerazioni. Pubblico il suo contributo con l’assenso verbale e scritto alla pubblicazione dell’autrice, per contattarla personalmente qualora sentiate l’esigenza di uno scambio o altro potete scriverle qui: patriziaandrea@libero.it

Buona lettura.

Anna Maria

Il trauma e la storia

Produciamo storia collettiva e dalla storia collettiva siamo modellati


Psicologi per i Popoli sez. Toscana, propone una riflessione sulle dinamiche bio-psico-sociali dei traumi collettivi storici e culturali

A gennaio scorso partecipando ad un incontro di formazione sulla cooperazione internazionale, un collega pose a tutti i partecipanti la seguente domanda: come possono gli psicologi diventare promotori di pace?

Crediamo che la risposta a questa splendida domanda, stia nella nostra possibilità di comprendere e far conoscere le dinamiche psicologiche collettive che alimentano i conflitti, la violenza, l’odio, il pregiudizio e la paura dell’altro.

La diffusione di questa cultura, di questa comprensione è uno dei presupposti (non l’unico) del dialogo e della possibilità di tolleranza reciproca.

Un’altra considerazione si lega alla precedente: sappiamo bene che chi ha subito traumi e violenze, se non riesce ad elaborarli tende a riprodurli, in una circolarità senza fine.

Questo avviene a livello di famiglie, di gruppi, di popoli. La storia contemporanea nella sua drammatica evidenza ci mette davanti a una serie di eventi che parlano, a nostro parere, di come, ad esempio, i traumi della seconda guerra mondiale non siano stati elaborati e pacificati a sufficienza, in nome del ritorno alla normalità, alla vita, e se questo è stato conveniente a livello politico ed economico, se ne è trascurato l’aspetto psicologico collettivo.

Gli eventi umani appaiono così complessi che occorrono più discipline insieme per tentare di avvicinarsi alla loro comprensione : economia, storiografia, geopolitica, antropologia, sociologia e psicologia come una delle chiavi di comprensione dell’esistente.

Possiamo esplorare questi territori attraverso vari percorsi : la psicotraumatologia, lo studio dei traumi a livello intergenerazionale e transgenerazionale, gli sviluppi attuali dell’epigenetica. Un ramo della psicoanalisi transgenerazionale (soprattutto francese) e l’orientamento sistemico relazionale hanno studiato e studiano le dimensioni multigenerazionali del trauma che certamente sono di enorme complessità e pongono a noi tutti sfide culturali di grande portata a cui sarebbe vano sottrarsi. A nostro parere per fare questo la psicologia deve esprimersi anche sui grandi temi contemporanei in modo tale che la cultura psicologica possa cambiare il modo in cui tali temi vengono comunemente guardati. La psicologia conosce la specificità dei processi di memorizzazione in situazioni traumatiche e questo comporta una grande responsabilità nei confronti della vita umana a livello individuale e collettivo.

Chiariamo intanto cosa si intende per traumi storici: intendiamo eventi drammatici che hanno coinvolto migliaia di persone e che hanno avuto un impatto traumatico su ogni singolo individuo. Quando le persone sono in presenza di sconvolgimenti brutali del mondo ordinario, che scatenano sentimenti generalizzati di insicurezza, di prossimità con la morte, di perdita di certezze familiari, disorientamento spaziale e temporale, possiamo ipotizzare che abbiano subito un trauma. Questo effetto traumatizzante si rinnova nel tempo e non tende a estinguersi. Il trauma psichico è la conseguenza di un evento drammatico che non si è stati in grado di elaborare con i consueti meccanismi di difesa e che può provocare una dissociazione della coscienza con conseguenze più o meno gravi e persistenti e sappiamo ormai che ciò che non è stato elaborato, si ripete per trasmissione intergenerazionale e transgenerazionale nella vita dei discendenti. Per alcuni si mettono in moto processi che definiamo resilienza, ma per molti altri gli effetti permangono nel tempo. Possiamo ipotizzare un trauma storico quando le generazioni che ci precedono sono state coinvolte in eventi passati particolarmente tragici (guerre, eccidi, stermini, catastrofi naturali ecc.) che hanno influenzato in modo drammatico le loro vite. Il concetto di trauma storico fino a oggi è riservato a cataclismi creati dall’uomo: guerre, purghe, massacri, genocidi, stermini. Laddove è lesa ed umiliata la dignità umana ad opera di altri uomini. Ci sembra che il concetto di trauma storico contenga questi due aspetti, la storia delle vittime e la storia dell’umanità fin nei loro fondamenti. Inoltre alcuni eventi come le guerre e gli eccidi, eliminando il divieto dell’assassinio, degradano ancora di più la condizione umana, mostrando la forza devastante delle nostre tendenze distruttrici. Le migrazioni di massa dovute alla miseria che obbliga le persone a lasciare la propria terra e i propri cari sono ormai considerati traumi storici, traumi costituiti da microtraumi relazionali ripetuti che si accumulano silenziosamente nel processo di sviluppo: si crea un’atmosfera traumatica pervasiva, la fatica psichica che compromette profondamente la capacità resiliente di un soggetto anche adulto di affrontare la “catastrofe”. (Maura Saita Ravizza 2018).

Conoscere i traumi storici e ambientali è importante per dare senso a comportamenti e sensazioni inspiegabili nei discendenti di coloro che li hanno subiti o agiti. I membri di una collettività sentono di essere stati sottoposti ad un evento orribile che ha lasciato tracce indelebili sulla loro coscienza di gruppo e che ha segnato per sempre le loro memorie, cambiando la loro futura identità in modo fondamentale e irrevocabile.

A questo proposito la scienza sta lavorando attorno all’ipotesi sempre più fondata che i traumi si possono ereditare : oltre ad alcune specialità della psicologia, che abbiamo citato prima, anche alcune specializzazioni della biologia, come la ricerca genetica ed epigenetica lavorano attorno a tale tematica.

La ricerca contemporanea sta sempre più evidenziando come le esperienze traumatiche e stressanti vissute da genitori e ascendenti possano plasmare la salute e il benessere delle generazioni successive. Da sempre si ipotizza che esista una trasmissione inconscia tra genitori e figli che poi a loro volta la tramandano ai loro successori. Inoltre la teoria dell’inconscio collettivo di Jung ritiene che siamo portatori anche delle memorie dei nostri antenati. L’epigenetica sta confermando queste intuizioni.

Possiamo citare ad esempio, gli studi epigenetici, ma non solo, sui discendenti degli internati in campo di concentramento, sui profughi da zone di guerra e i loro discendenti, sui profughi da situazioni di carestia e fame e sulla ricaduta di tali esperienze traumatiche nelle generazioni successive in termini ad esempio di una particolare tendenza a fenomeni di depressione e/o ansia. Alcuni studi hanno dimostrato nei topi che il trauma modifica piccole frazioni di materiale genetico e che questa alterazione si può trasmettere per tre generazioni. Infatti anche il metabolismo dei piccoli era alterato come quello dei genitori con livelli di insulina e zuccheri nel sangue inferiori alla media.

Nel 2014 al Brain Research Institute di Zurigo si è dimostrato per la prima volta che le esperienze traumatiche influenzano il metabolismo a lungo termine, che i cambiamenti indotti sono ereditari e che gli effetti del trauma ereditato sul metabolismo e sui comportamenti psicologici persistono fino alla terza generazione.

Negli Stati Uniti nel 2005 uno studio condotto dal Mount Sinai Hospital di New York sui sopravvissuti della Shoa ha analizzato i profili genetici di 32 ebrei deportati e dei loro discendenti evidenziando alterazioni epigenetiche, segni nel DNA dei figli, rapportabili al trauma vissuto dai progenitori. In particolare i figli dei sopravvissuti avevano ereditato un’alterazione nella produzione del cortisolo, ormone coinvolto nel metabolismo e nella risposta allo stress, e questo li rendeva più vulnerabili a disturbi metabolici.

Un’analisi pubblicata recentemente(Mulligan 2025) su tre generazioni di rifugiati siriani(131 persone, 48 famiglie) dimostra metilazioni di DNA situate presso geni coinvolti nella regolazione dello stress, potenzialmente influenzando la capacità di gestire lo stress e le relazioni.

Un altro dato rilevante emerso dallo studio riguarda l’accelerazione dell’età epigenetica nei bambini esposti prenatalmente al trauma relazionale. Questo suggerisce che il trauma materno ha un impatto duraturo sullo sviluppo biologico del feto, potenzialmente aumentando il rischio di problemi di disregolazione emotiva e difficoltà relazionali in età adulta Mulligan e collaboratori hanno dimostrato che adulti e bambini siriani testimoni diretti di violenze negli anni 80 e dopo il 2011 presentavano segni epigenetici distintivi in alcune regioni del DNA.

Nel caso di una donna che aveva assistito ad episodi di violenza negli anni 80, queste marcature erano ancora presenti nella figlia e nei nipoti.

In altre parole sembrano rilevabili firme epigenetiche di un trauma attraverso tre generazioni di umani in un disegno di ricerca controllato, per quanto il meccanismo preciso di trasmissione non sia ancora del tutto chiarito. Esistono ricerche precedenti sui sopravvissuti olandesi alla carestia durante la seconda guerra mondiale e quella in Ucraina a seguito della carestia pianificata da Stalin tra il 1932 e il 1938 che uccise milioni di persone, lavori che hanno suggerito che la prole portava cambiamenti epigenetici che aumentavano le loro probabilità di essere sovrappeso e sviluppare diabete più avanti nella vita. La violenza può quindi lasciare un’impronta biologica duratura.

Non è comunque ancora chiaro se queste modificazioni abbiano un impatto diretto sulla salute o siano biomarcatori di esposizione. Per quello che ne sappiamo fino ad adesso il genoma umano non cambia nel corso della vita ma l’ambiente e le esperienze, anche quelle traumatiche possono modificare i meccanismi che controllano l’espressione genica : in questi casi la sequenza del DNA viene modulata da piccoli gruppi chimici che in posizioni specifiche accendono o spengono l’espressione di determinati geni. La trasmissione intergenerazionale del trauma implica che eventi avversi come guerre, carestie, violenze di vario tipo lascino un’impronta biologica sui discendenti attraverso modificazioni epigenetiche, in particolare la metilazione del DNA. Gli studi hanno dimostrato che le variazioni epigenetiche possono essere trasmesse alle generazioni future ma questo non significa che siano permanenti, sono in linea di principio reversibili e dinamiche, possono essere modificate e sfumate, visto che subiscono l’influenza di fattori ambientali, stili di vita, fattori relazionali. Tali variazioni possono rappresentare una drammatica eredità ma anche aiutare gli esseri umani ad adattarsi agli ambienti futuri. In sintesi l’epigenetica getta una luce profonda, multigenerazionale, biologica e corporea sui traumi ma offre anche un quadro dinamico e potenzialmente modificabile dell’espressione genica. Da questi studi, ancora da chiarire e approfondire, risulta comunque quanto sia necessario sviluppare interventi mirati per le popolazioni a rischio (rifugiati, vittime di violenza ecc.), interventi che diano maggior valore all’azione positiva piuttosto che alla vittimizzazione e riconoscano la resilienza delle vittime. Il concetto di memoria traumatica introduce la possibilità di parlare dei vinti in un modo diverso da quello della loro disfatta.

Servono politiche che promuovano percorsi di guarigione e empowerment: passare da “vittimismo e vulnerabilità” ad “azione e adattabilità”.

Le manifestazioni collettive relative ai traumi di massa e il loro impatto sulla società sono aree di indagine scientifica da non trascurare e il trauma va compreso in un’ ottica allargata che tenga in considerazione il contesto sociopolitico. La forza distruttiva del trauma può essere trasmessa alle generazioni successive in un processo transgenerazionale con effetti collettivi continuativi (traumatizzazione secondaria). (Sironi F. Violenze collettive. Saggi di psicologia geopolitica clinica- Feltrinelli 2010).

Siamo convinti che al di qua e al di là del trauma, sono imprescindibili almeno tre generazioni per costruire e modellare il profilo di un essere umano. La nostra nascita non è solo il prodotto dell’unione di un ovulo e uno spermatozoo, e della dotazione genetica che le è propria, bensì siamo eredi e messaggeri, o portavoce del desiderio genitoriale e dei suoi divieti, siano essi espliciti oppure inconsci ed è attraverso di essi che si trasmettono i codici e i mandati del linguaggio e della cultura. Dal punto di vista psicologico il trauma collettivo si trasforma in memoria collettiva e culmina in un sistema di significato che consente ai gruppi di ridefinire chi sono e dove stanno andando. Per le vittime il ricordo del trauma può essere adattivo per la sopravvivenza del gruppo, ma anche innalzare la minaccia esistenziale, che spinge alla ricerca di un significato e alla costruzione di un sé collettivo transgenerazionale. Ricavare un significato dal trauma è un processo continuo che viene continuamente negoziato all’interno dei gruppi e tra i gruppi ed è responsabile del dibattito sulla memoria. Il termine trauma collettivo si riferisce alle reazioni psicologiche a un evento traumatico che colpiscono un’intera società, non riflette semplicemente un fatto storico, il ricordo di un evento terribile. Suggerisce che la tragedia è rappresentata nella memoria collettiva del gruppo e, come tutte le forme di memoria, comprende non solo una riproduzione degli eventi, ma anche una continua ricostruzione del trauma nel tentativo di dargli un senso. La memoria collettiva del trauma è diversa da quella individuale perché persiste al di là della vita dei diretti sopravvissuti agli eventi, ed è ricordata da membri del gruppo che possono essere lontani nel tempo e nello spazio dagli eventi traumatici. Quindi la memoria collettiva di eventi traumatici è un processo psicologico e sociale dinamico, dedicato principalmente alla costruzione di significato. Ne deriva che il trauma è sì un evento distruttivo, ma anche un ingrediente insostituibile nella costruzione del significato collettivo. I gruppi di vittime possono assumersi la funzione di mantenere viva la memoria del trauma e di portare le generazioni successive a incorporarlo nel loro sé collettivo (Kai Erikson 1976 .)

Il trauma può contribuire alla creazione di una narrativa nazionale, un senso di identità. Il trauma collettivo d’altra parte mina il senso di sicurezza fondamentale con effetti di lunga durata tra le seconde e le terze generazioni di sopravvissuti : a livello sociale questi manifestano una accentuata paura individuale e collettiva, sentimenti di vulnerabilità, orgoglio nazionale ferito, umiliazioni, una crisi di identità e una predisposizione a reagire con maggiore vigilanza alle nuove minacce, tanto che il dolore delle generazioni passate viene confuso con le minacce che incombono sulla generazione attuale. Questi effetti del trauma sulla costruzione del significato collettivo possono aumentare con il passare del tempo perché l’attenzione della memoria si sposta dalla dolorosa perdita di vite umane alle lezioni a lungo termine che i gruppi traggono dal trauma. Una funzione primaria delle memorie collettive è quella di creare e mantenere l’identità sociale : la storia ci fornisce narrazioni che ci dicono chi siamo, da dove veniamo e dove dovremmo andare. Definisce una traiettoria che aiuta a costruire l’essenza dell’identità di un gruppo. Gli irlandesi commemorano le ribellioni contro gli inglesi; i coreani portano con sé le cicatrici dell’oppressione giapponese; i bosniaci non potranno mai cancellare le atrocità di Srebrenica; e l’eredità dell’Olocausto è quella di non dimenticare mai. Questi ricordi di vittimizzazione ci dicono che il ricordo doloroso del trauma è adattivo per i gruppi in quanto su un primo livello promuove una vigilanza che può migliorare l’effettiva sopravvivenza del gruppo ripristinando un senso di efficacia, su un livello più profondo il ricordo del trauma e la minaccia esistenziale a esso inerente motivano il desiderio di costruire significato attorno all’esperienza di un’avversità estrema. In questo processo di creazione di significato viene messo insieme un sé collettivo transgenerazionale, un’identità storica autotrascendente che fornisce un senso di continuità tra membri passati, presenti e futuri del gruppo. Lasciare andare il trauma è quindi sconveniente e costoso : è come abdicare al significato collettivo e contro questa minaccia le società si mobilitano per mantenere vivo il trauma come lezione dal passato al futuro. Il ricordo degli eventi dolorosi può favorire una prospettiva postraumatica paranoica e paralizzante, ma può anche stimolare la crescita attraverso il significato derivato dal trauma, significato che enfatizzi resilienza e capacità di riabilitazione del gruppo (Collective Trauma and the Social Construction of Meaning – G.Hirschberger). Sappiamo che i traumi psicologici personali o sociali cui non si da udienza si ripetono nel segno della distruttività, per questo deve avvenire l’elaborazione del lutto, senza tale processo si rischia di rimanere intrappolati in un eterno presente in cui i vissuti di perdita, abbandono, annientamento e pericolo vagano alla ricerca di strade, il più delle volte le stesse e tanto più disfunzionali quanto più inconsapevoli, per trovare la loro voce. A volte le vittime si identificano col nemico, nel tentativo di padroneggiare il lato traumatico di esperienze ripetute e mettersi dalla parte del più forte nella fantasia di sentirsi al riparo dal male, dall’insonnia, dai ricordi e dalla distruttività che invade le persone traumatizzate.

I traumi collettivi sono più difficili da definire di quelli individuali e tuttavia sono ancora più degni di studio perché hanno fatto sanguinare la storia e continuano a farlo. Negli Stati Uniti si rilevano ancora oggi tracce psichiche della schiavitù nella popolazione afroamericana. Già Freud ha aperto la strada alla comprensione del trauma come esperienza non solo individuale ma anche storicamente sedimentata e culturalmente condivisa. In Totem e tabù e L’uomo Mosè e la religione monoteista aveva ipotizzato che eventi traumatici fondativi rimossi, potessero riemergere nel tempo sotto forma di nevrosi collettive ( Luciano De Fiore, Guido Coccoli European Journal of Psychoanalysis ). Il trauma non elaborato può attivarsi retroattivamente, acquistando forza distruttiva nel tempo e rischia di riprodursi attraverso cicli di difesa paranoide, ipervigilanza e persino violenza preventiva. La vittima che si trasforma in carnefice, non è tanto un paradosso psicologico, quanto il sintomo di un trauma irrisolto. La Shoah, divenuta fondamento identitario dello stato di Israele, può generare un contratto narcisistico collettivo, una trasmissione inconscia di mandati psichici non scelti (Renè Kaes 2009) secondo cui l’essere stati vittime diventa un fondamento dell’identità e giustificazione assoluta di ogni forma di difesa; l’dea di uno stato ebraico nasce almeno in parte come compensazione simbolica del trauma ma non lo elabora : lo istituzionalizza. Il trauma diviene una sorta di mandato politico e ideologico. La sofferenza diventa sacrale e il lutto non viene elaborato. Nicolas Abraham e Maria ToroK (1993) parlano di cripta psichica: il trauma non elaborato si deposita nell’inconscio delle generazioni successive come un fantasma che agisce da dentro.

Non si tratta di sostenere che chi ha subito violenza “sia destinato” a infliggerla ma se il trauma non viene simbolizzato, parlato, pensato, riconosciuto a livello collettivo esso tende a ripetersi, spesso invertendo le posizioni. Il caso israeliano mostra che la storia non sia solo fatta di eventi ma anche di fantasmi, mandati e legami invisibili. Ma il trauma per quanto pervasivo non è un destino. Il contratto narcisistico può essere sciolto attraverso il riconoscimento simbolico, la narrazione condivisa, il lavoro del lutto. In Sud Africa Mandela ha fatto di tutto per elaborare pubblicamente il dolore collettivo. Il nostro secolo peraltro è pieno di dinamiche conflittuali : il Ruanda, la ex Jugoslavia, l’Armenia, il Guatemala, la Cambogia, il conflitto Ucraina- Russia solo per citarne alcuni.

La sfida oggi è costruire un contesto che permetta di immaginare la rottura della dinamica identitaria fondata sul trauma per costruire una memoria plurale che si faccia carico della complessità delle ferite senza feticizzarle.

Inoltre il lavoro di memoria da parte dei sopravvissutisi si può trasformare in modo significativo solo nel momento in cui, nello spazio potenziale di recezione da parte del “mondo di quaggiù”, per usare un’espressione di Primo Levi, si creino le condizioni che permettano di assumere la posizione di “testimone del testimone”, secondo la definizione efficace di J.F. Chiantaretto (2004). ‘E dunque un lavoro che ci riguarda tutti.

“Oggi mentre vado concludendo queste mie note, è il 13 aprile 1995. ‘E giovedì santo…. Lo stesso giorno, esattamente trecentonovantasette anni fa, EnricoIV promulgò l’editto di Nantes; duecentocinquantatre anni fa fu eseguito per la prima volta a Dublino, l’oratorio di Hendel Il Messiah….E sessantaquattro anni fa ebbe luogo il massacro di Amritsar, allorchè il generale Dyer, per dare l’esempio, fece aprire il fuoco su una folla insorta di quindicimila persone” W.G. Sebald Gli anelli di Saturno

Psicologi per i Popoli sez. Toscana intende promuovere e realizzare un convegno nazionale su tali tematiche, aperto alla Federazione, alla SIPEU, a tutti gli psicologi interessati e anche a tutti gli appartenenti ad altre professioni che si occupino di relazioni d’aiuto (assistenti sociali, educatori, insegnanti ecc.). La data prevista è il 7 marzo 2026. Per ulteriori informazioni contattare l’email patriziaandrea@libero.it

Patrizia Giorgi

Condividi Articolo

contact image

Vuoi lavorare con me?

Se cerchi una collaborazione autentica e trasformativa, sei nel posto giusto.

  • Uno spazio di ascolto sincero e non giudicante
  • Un percorso di cambiamento ed evoluzione consapevole
  • Un’esperienza professionale che valorizza chi sei